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martedì 20 ottobre 2009

il sentore della morte ogni giorno




Un respiro sordo, quasi un sibilo soffocato dal catarro si espande. Passi. Passi sempre più vicini, sempre più pesanti. Passi. Io , dal buio della mia cella non vedo altro che uno spiraglio geometrico varcare la soglia della finestra e concludersi in quella che dovrebbe essere la mia gavetta. All’udire di quei passi, marcati e decisi più del solito, i ratti impestanti rintanano nei loro loculi tra le pareti e il pavimento sudicio. Sono passati tre, quattro anni non ricordo e nulla è cambiato ,tranne la cadenza della marcia di quest’oggi. Non sembra il solito Muhad, altezzoso e taciturno uomo d’armi. A dirla tutta i passi sono plurimi. La cadenza discorda con il passo bipede di un essere umano. Devono essere almeno in due. Che sarà mai.

Il metallo della serratura cozza leggermente con la chiave e con un cigolio sinistro e tetro scatta il primo chiavistello. E il secondo. E il terzo. Infine i cardini poco lubrificati della porta emettono un urlo sordo.

La mia vista, da tempo abituata esclusivamente al fioco bagliore riflesso nella gavetta, viene violentata dalla luce intensa del corridoio nella quale la porta della mia cella si riversa. Le sagome di due soldati vengono verso me. Che sarà mai? Che giorno è oggi?silenzio. I soldati legano i miei polsi, come se potessi mai, ridotto allo stremo, reagire nei loro confronti. Un guizzo di luce sfiora il volto di uno. Sguardo di indifferente sarcasmo, quasi un abbozzo di ghigno. O mio dio che cazzo di giorno è oggi? Come un lampo improvviso si scaglia funeste e prorompente, nei miei pensieri è emersa una data. 13 ottobre. Ho mal di testa, incomincio a sudare. Ogni poro del mio corpo emette un sudicio liquido gelato, i denti mi battono e il rumore stridente delle mascelle che si serrano e si aprono con un ritmo frenetico riecheggia nelle pareti grigiastre del corridoio. Mi ero dimenticato di questa data. Ho vissuto mesi, anni, con il timore che arrivasse. Io , impotente e rassegnato sono costretto alla vita. all’attesa. Nessuna notte è più stata accompagnata dal riposo, nessun cibo mi ha più saziato. Quella data non ha altro sinonimo che morte.

Successe cinque anni fa, avevo quattordici anni. Era una calda serata iraniana, ave

vo lavorato tutto il giorno e ancora emanavo un olezzo tremendo misto di pecora e liquame. I ragazzi con cui sarei dovuto uscire quella sera attendevano il mio arrivo seduti nel bordo di una fontana di Teheran, nostro punto di ritrovo. Ragazzi semplici, allegri, pervasi dalla cultura arrogante tipica della mia generazione. Al mio arrivo li osservavo da lontano stuzzicare una coppietta di qualche anno più grande di noi. Mi avvicinai per prendere giogo al progressivo innervosirsi della quiete coppia. Il ragazzo

adirato si issò improvvisamente e scagliò un colpo di destro nel mento di un mio compagno, alla visione di questa scena scattai di corsa verso il gruppo, avevo intenzione di fermare quella imminente rissa. Le urla e le bestemmie fecero avvicinare come avvoltoi un nugolo di persone che accerchiarono come in un’arena i miei amici e il ragazzo offeso. Erano solo parole, insulti, malizie giovanili, perche reagire cosi? Mi faccio strada tra i curiosi, il ragazzo nettamente più forte prevaricava sugli altri due. In preda al panico scorsi una grossa pietra, mi fiondai a recuperarla e con un balzo felino mi gettai , con in mano quell’arma di dio, contro l’aggressore. Tutto terminò in un istante. Il debole cranio umano non riuscì a reggere il duro colpo granitico. Una miscela eterogenea di cervella e sangue mi ungeva. I miei piedi la pestavano. I miei amici terrorizzati mi osservavano. Io ero nel centro di quell’arena: Per gladio tenevo in mano una roccia.

Avevo vinto. Vinto la mia eterna sconfitta. Avevo quattordici anni, vivevo di impulsi, di lì a poco svenni per il terrore. A distanza di cinque anni, tra le braccia dei miei aguzzini, il terrore mi pervade, preda del vortice della paura svengo.

Apro gli occhi lentamente per impedire alla luce di oltrepassare la mia retina. E’ tutto bianco. Il candore evanescente svanisce, mettendone da parte la trascendenza e mostrandomi a poco a poco qualcosa che preferivo non vedere. Ancora una volta un nugolo di persone. Ancora una volta un’arena. Riesco a mettere a fuoco le immagini confuse stagliatemi violentemente dinanzi. Dopo anni riuscivo finalmente a vedere i colori, la luce, volti che non siano avanzi di galera. Un ingenuo levare allegro sembrò pervadermi. Chi è quella donna? Con terrore scorsi gli occhi di quella povera donna che mia mise al mondo. Ma chi sono costoro? Adesso che presto più attenzione con sorpresa mi accorgo della presenza di altri volti familiari. Tutti accomunati dalla stessa lugubre maschera di terrore. I sollazzi gioviali regalatemi dalle prime luci del sole svanirono all’unisono rendendomi conto di dove fossi. Lo svenimento mi aveva condotto ad uno stato transitorio di beatitudine. Inconsciamente il mio corpo ha reagito a un’emozione troppo forte, troppo esplicita, evadendo. Che male al collo, provo ad alzare le braccia ma niente da fare. Sono legato. I polsi sono cinti da un laccio di pelle, il collo da una grossa corda intrecciate. Il mio destino si professa, indifferente e catartico,ed io non posso far nulla per mutarlo. Non ho potuto fare nulla per anni. I miei aguzzini, malfattori governativi, mi strattonano, mi mettono in riga accanto ad altri due giovani. Il brusio popolare cessa. Io tremo. Sento freddo, le gambe mi cedono, osservo il tumulto acquietarsi. La donna che identifico come mia madre scoppia in un lamento agonico. Sono confuso. 5 anni ho atteso con precisione scandita da una sentenza

infernale questo giorno. Avevo quattordici anni. Ne ho diciannove. La nazione, il potere, necessitano di vittime da offrire agli occhi dei peccatori. La voce araba che capeggia il sottofondo cessa. Voglio fuggire. So che sto morendo. Soffrirò? Soffrirò? Me lo chiedo da anni. Anni in cui il mio unico motivo di esistere è stato quello di sperare che la mia vita fosse un incubo dal quale presto o tardi mi sarei svegliato. Anni che conosco la data in cui sarei morto.

Il marchingegno a caduta applicato in antichità è sostituito da una gru. Questa solleva il condannato penzolante per il collo che si scuote in preda al panico fino a quando le ossa cervicali non cedono o i polmoni non hanno più ossigeno. Spalanco gli occhi alla vista del ragazzo bendato e ammutolito con un panno ficcato con arroganza in gola. Tocca a me. Quest’uomo puzza di fracido. Mi benda, sento le sue mani sudate sfiorare il mio cranio rasato. Il mio tremolio diventa isterico, i pensieri si accavallano. Uccidetemi ora, basta attese, vi prego uccidetemi, ne ho abbastanza! Provo ad urlare, ma anche il basilare di diritto di esternare l’agonia mi è stato vietato. Un rumore meccanico squarcia l’aria. Terrore, terrore, un altro echeggio e poi… Alla mia età i ragazzi fanno l’amore, prospettano un futuro, non sanno quando diamine dovranno morire, io si: Adesso.

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